LORO E NOI - 22/07/2025
 
Figuracce, rimpianti e tacite promesse

Nella rubrica “Lo dico al Corriere” del Corriere della Sera dell’11 luglio, un lettore commenta in questo modo l’espulsione del ministro dell’Interno Piantedosi dalla Libia orientale per opera del governo di Haftar: in primo luogo ci tiene a sottolineare che la delegazione era europea, e che quindi accentuare la debacle italiana è – a suo giudizio – una strumentalizzazione dell’opposizione, successivamente emerge un palese rimpianto dei tempi che furono («La Libia è un tale ginepraio di milizie da far rimpiangere non uno come Gheddafi ma Italo Balbo! Checché se ne pensi! Di Balbo, intendo, quando della nostra «quarta sponda» era lungimirante ed emarginato (da Mussolini) governatore»).
Aldo Cazzullo non si scompone e cerca di sviare le suggestioni littorie («temo che Balbo c’entri poco»), rimproverando piuttosto il recente passato («Sento in giro semmai una grande nostalgia di Gheddafi», «Ma davvero abbiamo nostalgia di un satrapo, la cui popolarità si misurò quando il suo regime cadde e lui fece la fine che fece? L’alternativa non era puntellare il regime di Gheddafi. L’alternativa era costruire un Paese democratico»). La guerra alla Libia del 2011, nel centenario della conquista da parte del giovane imperialismo italiano di quei territori a danno del declinante Impero ottomano, ebbe esito catastrofico per il Governo italiano allora in carica, che fu colto in contropiede dall’iniziativa di altri imperialismi più forti, intraprendenti e decisi (l’intervento militare fu inaugurato dalla Francia con una attacco aereo attorno a Bengasi e poi seguito dal lancio di missili su tutta la Libia da navi britanniche e statunitensi). Berlusconi, che aveva steso tappeti rossi e letteralmente allestito tende nel centro di Roma per il leader libico e le sue amazzoni, si trovò stritolato nei rapporti di forza internazionali e tutta la debolezza dell’imperialismo italiano in incipiente declino è venuta alla luce.
Resta così alla borghesia italiana, e ai suoi rappresentanti, un amaro rimpianto, per cui si rinfaccia alle altre potenze, fatte invero della loro stessa mefitica pasta imperialistica e predatoria, di averle sottratto una storica sfera di influenza: «Il problema», scrive il giornalista del quotidiano meneghino, «è che in Libia sono tornate logiche coloniali. Da una parte le potenze occidentali, a cominciare dal Regno Unito, dalla Francia, dalla Turchia, dall’altra la Russia si sono divise il bottino». Chiaramente in questo quadretto si deduce che le logiche coloniali e imperialistiche non riguardano in alcun modo lo Stato italiano, che ne è – chissà mai perché – immune e in nessun modo è interessato ad alcun bottino…a differenza degli altri!
In realtà oggi l’imperialismo italiano prova a ritagliarsi, da posizione di estrema debolezza, uno spazio sia in quella che era la Cirenaica che la Tripolitania, ma le sconfitte politiche non si possono mandare nel dimenticatoio, un prezzo si paga sempre, e soprattutto i rapporti di forza non si possono inventare e nemmeno non considerare nella lotta politica.
Come marxisti dobbiamo però stare sempre in guardia, ed educare i lavoratori più coscienti, dal sottovalutare i nostri avversari di classe, non pensare che deporranno le armi solo perché in declino o in estrema difficoltà. Anzi, proprio perché in arretramento sotto numerosi punti di vista, la borghesia italiana cercherà di suscitare e dare sostanza ad un nazionalismo non meno aggressivo del passato. E si prodigherà in ogni modo per mascherare le sue guerre imperialistiche di domani nella veste ideologica più trasmissibile e digeribile alle masse proletarie italiane.
Nella chiusura della risposta di Cazzullo si intravede del resto già un possibile canovaccio quando questi sposta il discorso sul Corno d’Africa: «Il fatto che anche la Somalia come Stato non esista più, e che la frontiera tra Etiopia ed Eritrea sia di fatto impraticabile, non ci consola: là dove c’erano gli italiani, c’è il caos. Sono terre estremamente affascinanti, ricche di cultura e di storia, di cui ci siamo di fatto disinteressati (eccezion fatta per la nostra diplomazia, che resta una delle eccellenze nazionali), mentre occorrerebbe accendere un faro sia per capire le nostre responsabilità, sia per aiutare quei popoli con cui abbiamo un debito storico a costruire condizioni di vita libere, dignitose, democratiche».
Morale: proprio perché la vecchia borghesia italiana ha messo le mani in certe zone del pianeta quando ne ebbe la possibilità, la nuova borghesia italiana «accenda un faro» per «aiutare quei popoli con cui abbiamo un debito storico». Dove c’è il caos c’è dunque opportunità e anche necessità per un intervento, chiaramente benevolo, per portare benessere e democrazia, per aiutare quei popoli, per sdebitarci con loro. Il plurale maiestatis usato in queste prose intende sempre “noi italiani” senza differenze alcune tra classe dominante e dominata, ma sono le teste pensanti e critiche della borghesia italiana che preparano idee, argomentazioni e linee d’azione per le spartizioni imperialistiche di domani, infiocchettate alla meglio per diventare moneta ideologica corrente di largo consumo.