Il regno del capitalismo: merda e veleni
Due operai egiziani assunti in nero, morti nella merda per trasformare un ex centro migranti in villa di lusso.
Sono stati uccisi dalle esalazioni in una cisterna per la raccolta di residui biologici. «Sono andati a morire senza conoscere i rischi che stavano affrontando: nessun contratto significa, anche, nessuna formazione e nemmeno le giuste dotazioni di sicurezza» (Quotidiano Nazionale, edizione online 5 agosto).
È accaduto a Santa Maria di Sala (Venezia). A questo può arrivare la degradazione capitalistica. A questo può arrivare l’impiego al minor costo possibile della merce forza-lavoro. A questo può arrivare il perseguimento del profitto ad ogni costo, elemento centrale, ineliminabile, del mondo capitalistico, delle sue logiche e dinamiche.
Ci piacerebbe che almeno ci fosse risparmiata la solita solfa della tragedia attribuibile ai singoli imprenditori malvagi e irrispettosi della legge (peraltro anche in questo caso risulta difficile persino risalire all’azienda che direttamente ha assunto i lavoratori, visto come la costruzione di una rete di legami indistinti e subappalti entro cui far dileguare la responsabilità padronale è ormai divenuta una prassi sistemica), al “caporalato” inteso come occasionale deviazione dalla “normale” e benefica attività imprenditoriale. Ma sappiamo che queste untuose litanie hanno una loro precisa ragione in questa società
Degli individui che continuano a puntare il dito principalmente contro il “fattore umano”, attribuendo la responsabilità di queste tragedie del lavoro ai lavoratori stessi, alla loro superficialità e incuranza per le norme di sicurezza, preferiamo non parlare nemmeno. Non c’è dialogo possibile con chi non vuole vedere il carattere sistemico del continuo ripetersi di questi drammi (gli infortuni mortali sul lavoro in Veneto sono aumentati del 111% in un anno, Rai News, 7 agosto), il loro nesso, intimo e profondo, con la precarizzazione del lavoro, con la sempre più grave ricattabilità di lavoratori spesso costretti a continuare ad arrampicarsi su ponteggi, salire su tetti, faticare nei campi in età avanzata, data la costante inclinazione della borghesia italiana a fare cassa con le pensioni dei proletari. Il nesso con la possibilità data ai capitalisti di attingere ad un bacino di lavoratori immigrati, discriminati, costretti in un limbo oscuro nelle pieghe della società, ancora più vulnerabili e ricattabili (legioni di imprenditori sovranisti, patriottici, localisti usufruiscono quotidianamente di questa redditizia possibilità di dividere e sfruttare ancor più spietatamente la classe operaia).
C’è però anche un’altra formula con cui il mondo politico, i media, gli apparati ideologici della borghesia ricorrono di fronte al ripetersi di queste stragi della classe operaia. La condanna generica e universale, tanto radicale e apocalittica nei toni quanto assolutoria per la borghesia nei fatti. Ricordando i fatti di Marcinelle su Famiglia Cristiana del 10 agosto, la scrittrice, autrice e conduttrice televisiva Catena Fiorello unisce istituzioni, «datori di lavoro», sindacati e «tutti noi» in un ecumenico appello a diventare «sentinelle» in grado di denunciare il manifestarsi dell’«abuso» che porta alla morte sul lavoro. Il finale dell’articolo è al maiuscolo: «E MAI PIÙ MORTI SUL LAVORO, urliamolo tutti a gran voce». Queste sono urla che non fanno male al capitale. Anzi, qualche urletto di rito e di comodo – in una pausa tra gli strilli continui per l’esosa pressione fiscale, per l’incuranza della “politica” nei confronti delle proprie sacre esigenze – lo può lanciare, da qualche palco istituzionale e quando la circostanza lo richiede, anche Confindustria. Persino gli stessi imprenditori che mandano a morire i loro dipendenti. Simili esortazioni all’affratellamento di tutta la società, di tutte le sue classi di fronte alla tragedia dei morti sul lavoro, non ha altro reale, oggettivo significato che distogliere dalla necessità della lotta dei lavoratori contro l’ingranaggio capitalistico che li schiaccia e che li sacrifica al profitto.
Già ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx ebbe modo di smascherare il significato politico reale delle pie e celestiali invocazioni alla fraternità nel pieno della giungla della società divisa in classi. «Questa idillica astrazione dai contrasti di classe, questo livellamento sentimentale degli interessi di classe contraddittori, questo immaginario elevarsi al di sopra della lotta di classe».
Un’immaginazione certo non innocente né innocua. Un’immaginazione di fatto funzionale a perpetuare quel sistema che produce costantemente l’infortunio e la morte sul lavoro, logicamente, coerentemente con la propria natura e con le proprie essenziali leggi di funzionamento.
La necessaria lotta di classe del proletariato non può che essere anche lotta contro queste velenose illusioni.
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