Serenissima for sale
DiPiù è una pubblicazione assolutamente senza pretese intellettuali. Si occupa degli amori dei vip, di gossip, delle vacanze delle star e della fede da dopopranzo dei conduttori o dei partecipanti ai reality. Persino quando, en passant, si occupa di guerre e di vicende politiche, lo fa sempre con quel taglio da chiacchiera un po’ moralista con cui si cerca di riportare il tutto ai ritmi, ai criteri di una “normalità” piccolo borghese che non prevede approfondimenti e soprattutto la sofferta pratica di misurarsi con la complessità e le contraddizioni. Ma è tra i settimanali più venduti in Italia, con una tiratura di centinaia di migliaia di copie. È anche la testata che forse ha fornito la sintesi più precisa del significato storico e sociale del matrimonio del miliardario Jeff Bezos: «Bezos, il re di Amazon per le nozze ha regalato Venezia alla moglie» (4 luglio).
Sintesi tanto più efficace in quanto formulata senza la minima intenzione di avanzare una critica alla maratona nuziale per vip e capitalisti assortiti. Anzi, la rivista, per descrivere l’evento, ha scelto la formula Cenerentola: la fiaba della novella sposa, venuta dalla periferia sociale e infine approdata ai massimi vertici del mondo dei ricchi e potenti. Da bambina – racconta il settimanale – doveva cucirsi gli abiti da sola perché la famiglia non poteva permettersi di comprarli ma ha creduto nel sogno e infine ha potuto ricevere come anello di fidanzamento un gioiello del valore di «quasi cinque milioni di euro». Un tale lieto fine può consentire alla sposa di dispensare anche una autorevole lezione: «La mia è una favola con una morale ben chiara: non esistono sogni impossibili». Prendano nota gli autisti di Amazon che dovevano pisciare nelle bottigliette di plastica per non perdere tempo nelle consegne, i lavoratori vittime della “dissuasione” antisindacale portata avanti dall’azienda (il capitale fa di tutto perché certi «sogni» rimangano impossibili) o spremuti dai ritmi imposti dall’algoritmo.
Nel 2025 si può ancora descrivere la “questione sociale” come fosse una fiaba per infanti non particolarmente svegli. Il regresso complessivo della società capitalistica, particolarmente evidente nella realtà italiana, è anche questo.
É anche, però, lo scadimento di una concezione del rapporto tra spazio pubblico e privato, del governo della cosa pubblica, della dimensione della città, del territorio, delle comunità presenti su di esso. Un regresso brutale in riferimento alla stessa storia del pensiero politico borghese. Quella che un tempo era l’orgogliosa Repubblica di Venezia, quella che è stata la città di Paolo Sarpi, una capitale europea dell’editoria e della circolazione del pensiero più avanzato, l’epicentro di una storia grande e cruenta di commerci, di espansionismo, di esperimenti politici e istituzionali, è oggi una location. E c’è persino chi nel modello Bezos vede la quadratura del cerchio dei problemi legati al turismo di massa, la mitica frittata senza rompere le uova: mantenersi stretta la redditizia vocazione turistica, continuare ad incassare dall’immagine glamour, ma solo per i ricchissimi, che sono pochi, dalle cui saccocce possono cadere tanti soldi e che sporcano meno del turismo dei “poveri”. C’è modo e modo, guadagno e guadagno anche nella prostituzione di una storia e di una civiltà. Lo sanno benissimo quegli amministratori ed esercenti pragmatici che si sono scoperti improvvisamente inclusivi (magari dopo aver lanciato a più riprese alti lamenti per la tradizione calpestata, per le identità violate ad opera dell’“invasione” migrante o per i regolamenti di Bruxelles) di fronte alla calata degli sposini miliardari con il loro seguito di gente del bel mondo e di milizie private. Basta scucire una somma adeguata e ogni invasione diventa inclusione, ogni tradizione e identità, ogni memoria e dignità civile rivelano il proprio prezzo.
Venezia, nel tempo, è stata di fatto soppressa come città. Dove non è riuscito l’Impero Ottomano e il Trattato di Campoformio ha potuto il capitale.
Una delle più note tradizioni della Bologna dell’Ancien Régime era la Festa della Porchetta, descritta efficacemente da Valerio Evangelisti nel suo libro Gli sbirri alla lanterna: la nobiltà «si diverte allo spettacolo della plebe che combatte selvaggiamente per conquistare qualche brandello degli alimenti gettati dal Palazzo pubblico. Di frequente i vincitori si ritrovano in mano poche cartilagini, in cambio di ferite in tutto il corpo e di ustioni per il brodo bollente che gli aristocratici fanno versare sulla folla».
La vivace tradizione fu interrotta dall’arrivo dell’esercito rivoluzionario francese nel 1796. Era l’esercito di una rivoluzione borghese, era un’altra stagione della borghesia. La dimensione, la realtà, i diritti e la dignità dell’essere “cittadino” non potevano essere barattati con l’argomentazione che comunque i popolani, tra botte, ustioni e umiliazioni, magari riuscivano a mettere qualcosa sotto i denti. La grande stagione politica della borghesia se ne fotteva di questo pragmatismo da servi.
Oggi la Festa della Porchetta, nell’attuale, triste e feroce Ancien Régime capitalistico, è tornata alla ribalta, mediatica e globale.
Ovviamente Bezos che “regala” Venezia alla moglie non è il cuore del problema, il fulcro di questo processo storico.
Per parafrasare la battuta di un bellissimo film di Luigi Magni sulla Roma papalina alla vigilia della conquista italiana: non è finita perché è arrivato Bezos, è arrivato Bezos perché è finita.
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